Quella sera a Napoli, l’aura di Maradona era tra noi

I tifosi del Napoli rendono omaggio a Maradona all'esterno dello stadio

Quella sera a Napoli, quando ci lasciò Maradona

La notizia arrivò come un lampo che squarcia il cielo d’inverno: Diego è morto.
Per qualche secondo non capii, o forse non volli capire. Rimasi immobile letteralmente, con il telefono in mano, mentre le parole scorrevano ma non trovavano un posto dentro di me. Era come se il mondo avesse improvvisamente frenato, e il silenzio che ne seguì mi parve il più assordante che avessi mai sentito.

Poi, senza quasi accorgermene, mi ritrovai per strada. Dovevo andare da lui, o almeno dove lui aveva lasciato un’impronta eterna: lo stadio, la casa dei suoi miracoli. A quel tempo non portava ancora il suo nome, ma era già suo da sempre.

Arrivai che era già buio, pioveva, ma Napoli brillava. Non per le luci dei lampioni certo, ma ricordo il silenzio assordante come in un rito pagano, pieno di significato. Una marea di persone era lì, come me, attratta da qualcosa che non si poteva spiegare. C’erano ragazzi, adulti, anziani che avevano visto con i propri occhi il Pibe incantare il prato. Bandiere, sciarpe, lacrime.

Davanti ai cancelli, una distesa di candele tremolava come un mare in preda al vento. Ogni piccola fiamma sembrava una preghiera, un grazie, un ricordo. E lì, in mezzo a quell’onda di emozioni, io mi sentii parte di un’unica grande anima.

Tutti insieme, con un tipo di voce che si usa solo nei momenti che non si dimenticano, cantammo “Diego, Diego” come se potesse sentirci, come se la nostra chiamata potesse attraversare il cielo.

Mi fermai un attimo a guardare la curva dello stadio, la B, illuminata e viva come in una notte di Coppa. Pensai che forse non era un addio, ma un ritorno: Diego stava tornando lì, dove la sua leggenda era nata, per fondersi ancora una volta con la sua gente.

Quando il Comune annunciò che quello stadio avrebbe portato per sempre il suo nome, ci fu’ la percezione che era la cosa più giusta da fare, inevitabile, naturale. Non fu una sorpresa, fu una rivelazione: era destino. Quella casa, quel tempio, non poteva chiamarsi in nessun altro modo.

Quella sera non vidi solo persone piangere. Vidi la fede. Vidi la gratitudine. Vidi un popolo stringersi attorno a un uomo che aveva dato tutto, che non era perfetto, ma che era nostro, profondamente nostro.

E mentre me ne andavo, con gli occhi ancora lucidi e il cuore pieno di una malinconia che non fa male ma che scalda, mi resi conto di una cosa:
Diego non era morto. Non del tutto. Non lì.
Perché in quella città, in quelle strade, in quei cori che continuavano anche a notte fonda, lui viveva ancora. E avrebbe continuato a farlo, ogni volta che una palla sarebbe rotolata sull’asfalto, ogni volta che un ragazzino avrebbe gridato il suo nome provando una finta, ogni volta che lo stadio—ora Stadio Diego Armando Maradona—si sarebbe acceso di azzurro.

Quella sera, davanti a quel cancello pieno di candele, capii che la morte non vince sempre.
A volte, contro certi uomini, non può nulla.

E Diego era uno di questi.

Foto: (www.ilmeridianosport.it)