C’è un filo rosso – e non è quello della politica, almeno non ufficialmente – che unisce Gianni Infantino e Donald Trump. Un filo che parte da un pallone regalato nello Studio Ovale e arriva fino ai palchi d’onore delle finali mondiali. El País ha ricostruito una storia che sembra uscita da un romanzo contemporaneo: un presidente FIFA in cerca di consenso globale e un presidente degli Stati Uniti affamato di simboli, platee e riconoscimenti.
Tutto nasce nel 2018, quando Infantino arriva alla Casa Bianca con il sorriso di chi vuole colpire nel segno. Il gesto delle “cartelline arbitrali” strappa a Trump una reazione da showman: ammonisce per finta i giornalisti. È lì che scatta la scintilla. La politica americana scopre il calcio, e Infantino capisce di avere davanti il palcoscenico più potente del mondo.
Poi arriva Davos, 2020. Trump è ferito dal suo primo impeachment, la reputazione internazionale traballa. Infantino prende la parola davanti alla platea dell’élite globale e lo incensa: “Dice ciò che molti pensano, e mantiene le promesse”. Non una frase, un’investitura. Trump, colpito nell’ego più che nel cuore, lo promuove “amico Johnny”. Da allora, telefonate, golf, viaggi.
E critiche. Tante. Perché una cosa è la diplomazia, un’altra è accompagnare il presidente USA nei suoi tour internazionali come un consigliere extra-governativo. I detrattori lo accusano di piegare la FIFA ai desideri del suo alleato. I sostenitori rispondono che il Mondiale da 48 squadre ha bisogno di appoggi, non di purismi.
Intanto, negli Stati Uniti, il calcio avanza. Forse grazie alla coppia Infantino-Trump. O forse non per loro, ma malgrado loro. Di sicuro, come scrive El País, nessuno ricorda un presidente FIFA così vicino a un leader politico così divisivo.
E questa storia, piaccia o no, continuerà a far discutere.





